Graphic by: Alessia Castellano |
La meritata notorietà che il quartetto pratese dei Baby Blue si è conquistata portando in giro il secondo album We Don't Know ha trovato un importante apice nella registrazione, sotto la regia di Pamela Maddaleno, dell'esibizione dal vivo tenuta in un mite martedì primaverile al Glue di Firenze, locale inaugurato quest'anno che ha saputo ritagliarsi un rilevante spazio per la sua attenta ed interessante programmazione, ben sfruttata in uno auditorium di consistenti dimensioni che, è doveroso ammetterlo, in una città come Firenze era, a dir poco, necessario. L'esibizione fiorentina era particolarmente attesa, dato che si collocava nel pieno di un intenso tour che ha fatto girare il nome del quartetto un po' ovunque negli ambienti giusti del settore e premessa niente affatto scontata è che tale attesa è stata ampiamente ripagata da una performance che ha lasciato tutti gli spettatori (più che buona, diremmo, la presenza in sala) a pancia piena. La grande attitudine live del gruppo era, peraltro, ben nota, perfino superiore alla resa in studio di registrazione, ma il concerto a cui abbiamo assistito ne ha definitivamente certificato le potenzialità, segno che l'esperienza di anni insieme, consolidata dalla notevole recente tornata di concerti, ha lasciato un segno indelebile.
I brani, che partono dai successi dell'EP d'esordio sino alla recente produzione, splendono infatti ogni volta di una luce diversa, come sempre accade ai loro concerti. Sorprende fin dalle prime battute l'intro di una Ice Cream rivisitata in chiave dark-psichedelica, già a delineare il felice connubio, come il nome del gruppo già suggerisce, di ghigni sornioni, filastrocche infantili e improvvise strappate chitarristiche, terreno sul quale la band non è davvero seconda a nessuno. Dolcissimi ed aggressivi al tempo stesso, i Baby Blue sono un gruppo che, vivaddio, non ha paura di sbilanciarsi e di gettare tutto se stesso sul lato emozionale già del pezzo in sé, caratteristica che, naturalmente, dal vivo viene accentuata a dismisura. Le ballate dell'ultimo album raggiungono tutte alte vette di intensità, grazie soprattutto ad una voce (di Serena Altavilla) che è quanto di più magnifico e versatile si trovi nel panorama nazionale, capace di passare dal pianissimo, mai banalmente sussurrato o bamboleggiante, a frequenze inaudite (si guardi la jam finale di Porto Palo). A questo vero animale da palco, tanto sicura dei propri sterminati mezzi quanto fragile appare nelle movenze da ballerina di carta, quasi al punto di dare l'impressione di infrangersi da un momento all'altro, si affianca un poderoso chitarrista, che ogni gruppo rock che si rispetti dovrebbe avere per legge. Mirko Maddaleno lascia da parte i fronzoli e punta tutto su un chitarrismo di forte impatto, costellato di assoli nervosissimi che non diventano mai rumore gratuito (per ribadire che non c'è il trucco...), fino ad aprirsi in morbidi accordi quando lascia il freno. E quando risponde alla Altavilla nel duetto di I Don't Know, con un cantato disperato e sgraziato quasi da crisi d'astinenza che dà i brividi per quanto rievoca il giovane Iggy Pop, è autenticamente struggente. Cementificano il tutto uno scatenato Lorenzo Maffucci al basso, anche in veste (e chi, sennò?) di delegato alle relazioni con il pubblico (ché gli altri tre sono di una timidezza disarmante), granitico e fantasioso, e il solidissimo ed essenziale Graziano Ridolfo alla batteria, che non risparmia soluzioni inusuali (pelli suonate con le mani, accenti in levare che conferiscono un'atmosfera inaspettata al pezzo) e che ha il grande merito di non voler mai strafare e prevalere sul versante melodico della canzone, checché se ne dica, l'autentico punto di forza del gruppo, valorizzato anche dall'ottimo lavoro di Vanni Bartolini dietro il mixer. Quando partono River o Far From Home o il bluesettone di Earthquake (vero e proprio pezzo da handclapping da stadio, da cantare a squarciagola), però, è proprio grazie a loro che i brani decollano e il pubblico, di rimando, apprezza caloroso, c'è chi conosce a memoria tutti i pezzi e chi si fa coinvolgere dai momenti più languidi, impreziositi dall'azzeccata e minimale scenografia. Dopo tre bis, davvero di più non si può chiedere. Abbiamo contato 1 (uno) errore in tutto il concerto, concerto "tostissimo", ci piacerebbe dire, ma – credeteci – è poco.
I brani, che partono dai successi dell'EP d'esordio sino alla recente produzione, splendono infatti ogni volta di una luce diversa, come sempre accade ai loro concerti. Sorprende fin dalle prime battute l'intro di una Ice Cream rivisitata in chiave dark-psichedelica, già a delineare il felice connubio, come il nome del gruppo già suggerisce, di ghigni sornioni, filastrocche infantili e improvvise strappate chitarristiche, terreno sul quale la band non è davvero seconda a nessuno. Dolcissimi ed aggressivi al tempo stesso, i Baby Blue sono un gruppo che, vivaddio, non ha paura di sbilanciarsi e di gettare tutto se stesso sul lato emozionale già del pezzo in sé, caratteristica che, naturalmente, dal vivo viene accentuata a dismisura. Le ballate dell'ultimo album raggiungono tutte alte vette di intensità, grazie soprattutto ad una voce (di Serena Altavilla) che è quanto di più magnifico e versatile si trovi nel panorama nazionale, capace di passare dal pianissimo, mai banalmente sussurrato o bamboleggiante, a frequenze inaudite (si guardi la jam finale di Porto Palo). A questo vero animale da palco, tanto sicura dei propri sterminati mezzi quanto fragile appare nelle movenze da ballerina di carta, quasi al punto di dare l'impressione di infrangersi da un momento all'altro, si affianca un poderoso chitarrista, che ogni gruppo rock che si rispetti dovrebbe avere per legge. Mirko Maddaleno lascia da parte i fronzoli e punta tutto su un chitarrismo di forte impatto, costellato di assoli nervosissimi che non diventano mai rumore gratuito (per ribadire che non c'è il trucco...), fino ad aprirsi in morbidi accordi quando lascia il freno. E quando risponde alla Altavilla nel duetto di I Don't Know, con un cantato disperato e sgraziato quasi da crisi d'astinenza che dà i brividi per quanto rievoca il giovane Iggy Pop, è autenticamente struggente. Cementificano il tutto uno scatenato Lorenzo Maffucci al basso, anche in veste (e chi, sennò?) di delegato alle relazioni con il pubblico (ché gli altri tre sono di una timidezza disarmante), granitico e fantasioso, e il solidissimo ed essenziale Graziano Ridolfo alla batteria, che non risparmia soluzioni inusuali (pelli suonate con le mani, accenti in levare che conferiscono un'atmosfera inaspettata al pezzo) e che ha il grande merito di non voler mai strafare e prevalere sul versante melodico della canzone, checché se ne dica, l'autentico punto di forza del gruppo, valorizzato anche dall'ottimo lavoro di Vanni Bartolini dietro il mixer. Quando partono River o Far From Home o il bluesettone di Earthquake (vero e proprio pezzo da handclapping da stadio, da cantare a squarciagola), però, è proprio grazie a loro che i brani decollano e il pubblico, di rimando, apprezza caloroso, c'è chi conosce a memoria tutti i pezzi e chi si fa coinvolgere dai momenti più languidi, impreziositi dall'azzeccata e minimale scenografia. Dopo tre bis, davvero di più non si può chiedere. Abbiamo contato 1 (uno) errore in tutto il concerto, concerto "tostissimo", ci piacerebbe dire, ma – credeteci – è poco.
Tracklist:
Ice Cream
Miss
Don't Ask Me Why
Shut Up
Took Me Long
Hey Baby Hey
I Don't Know
Far From Home
All You've Known
Silently
River
All Right
Oh Marie
Porto Palo
So Much
Earthquake
----
Suga
Alligator
----
Dawn
Articolo a cura di:
Francesco D'Elia
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