Verdiana Raw: Whales Know The Route [2016]

Il secondo lavoro di Verdiana Raw, talentuosa chanteuse e art performer fiorentina, arriva via Pippola Music quattro anni dopo l'album di debutto "Metaxy": disco molto interessante, costruito intorno all'intreccio del bianco e nero del pianoforte con la grande forza vocale di Verdiana. Caratteristica tipica e distintiva, quest'ultima, che accompagna l'intera formazione e produzione musicale dell'artista toscana. Vera e propria "cantantessa" che, per quanto mi riguarda, a livello locale trova la sua giusta collocazione nell'insieme delle altre grandi voci femminili che ho apprezzato e con cui sono cresciuto negli anni (prendete una a caso tra Serena Alessandra Altavilla di Blue Willa e Solki, Michelle Davis dei Walking the Cow o Vanessa Billi dei We Melt Chocolate). In questo caso siamo difronte a una voce che non solo è capace di coinvolgere e trascinare, ma anche di sollevarsi su piani più eterei e mistici, senza incertezze o dubbi di sorta; proprio come la balena del titolo che, grazie alla sua memoria cosmica, conosce perfettamente la via da intraprendere. Una strada che Verdiana Raw, al secolo Verdiana Maria Dolce, forte della consapevolezza dei suoi istinti, non ha avuto paura di percorrere. Supportata da musicisti preparati e capaci di lasciarsi condurre da questa grande personalità vocale (Fabio Chari / batteria, Antonio Bacchi / chitarra – entrambi già nel progetto dal 2012 - Paolo Favati / basso ed Erika Giansanti / violino, viola, violoncello), Verdiana riesce a crearare un disco che, in sole dieci canzoni, si veste di diversi colori, mantendo un'orchestrazione sempre unitaria e mai caotica: si passa da tinte dark-folk a lampi di dream pop, da caratteri baroccheggianti o classici a elementi più onirici e scuri... il tutto grazie ad arrangiamenti ben pensati e curati che, come già detto in precedenza, riescono a mettere in risalto l'energia (perché di questo principalmente si tratta), la forza avvolgente e la grande esperienza vocale di Verdiana. In questo modo ogni singola traccia risulta sì indipendente e a sé stante, ma anche parte di un bellissimo tutto che riesce a trovare nei diversi spunti la propria irripetibile personalità: dal pezzo più radiofonico (la title track) fino alla rivisitazione della ninna nanna sefardita Durme Durme. Le atmosfere possono suggerire Diamanda Galás, Björk, Cocteau Twins, Antony and the Johnsons, Röyksopp o Massimo Volume in alcuni casi, ma il vestito che Verdiana indossa è cucito sulla sua figura, è un pezzo unico senza fili fuori posto che non copia né ripropone qualcosa di già noto, piuttosto si ricrea ed illumina ad ogni nuovo passo. Gli elementi di vitalità e rinascita che permeano questo disco si possono già inizialmente dedurre dalla bellissima foto di copertina che riesce a catturare appropriatamente tutta la sensibilità di Verdiana (non a caso lo scatto è opera della sorella, Roberta Dolce) e dalla scelta di porre in primo piano il figlio neonato della stessa cantante. Una decisione forte, sicuramente, ma che ancora una volta risulta corretta: si abbraccia la maternità come una vocazione, così come si fa con la musica, e nel percorso che si staglia all'orizzonte non c'è spazio per incertezze: si deve sempre essere coscienti delle proprie scelte e della strada che si vuole percorrere.
Recensione di:
Tommaso Fantoni 
 

Hero Shima: s/t [2015]

Gli Hero Shima sono un trio pratese nato sul finire del 2014 dall'unione di Cristiano Poli (voce e chitarra), Andrea Spagnesi (basso) e Federico Valente (batteria), freschi di uscita del loro primo EP autoprodotto registrato al Folsom Prison Studio dalla coppia d'oro Martino Mugnai/Emanuele Braca e poi masterizzato dal sempre ottimo Tommy Bianchi del White Sound Studio. La scelta di registrare in presa diretta e mixare in analogico si rivela più che azzeccata: le forti tinte new wave e post-punk che colorano marcatamente le quattro tracce dell'EP vengono così attenuate (senza però essere smorzate del tutto) da una patina vintage e avvolgente. I testi minimali, a metà strada tra sogno e realtà, vengono particolarmente enfatizzati dalla voce scura di Cristiano Poli, in linea con gli stilemi del genere a cui band ben più note ci hanno già abituato (Interpol, Cold Cave, Depeche Mode o Joy Division, a voi la scelta), il che non deve essere per forza visto come un difetto: alle venature '80s più classiche si unisce infatti un'urgenza espressiva fatta di ritmiche più serrate e punk, che contribuisce a donare una propria personalità ad un prodotto che, altrimenti, avrebbe rischiato di confondersi nella massa informe della banalità. Il sound che gli Hero Shima propongono è sì derivativo, ma anche consapevole e ben strutturato, mai monotono: le canzoni si rivelano essere molto orecchiabili e scivolano via svelte, dritte e scarne, sia nei tratti più frenetici e energici (The Game e Rockfeller) che in quelli più distensivi (Beachfront), riuscendo a coinvolgere anche chi - come il sottoscritto, tra l'altro - non è mai riuscito ad essere un grande amante di questo tipo di sonorità. Gli Hero Shima sono alla prima uscita, ma il progetto si rivela essere già maturo, sicuramente da tenere in considerazione, sia dagli appassionati della new wave vecchio stampo, che dalle nuove leve sempre in cerca di armonie accattivanti e ben costruite.
Recensione di:
Tommaso Fantoni

Marlon Brando: s/t [2016]

Dopo l'esperienza con il post-rock dei Lola's Dead, quartetto pistoiese di cui abbiamo già avuto modo di parlare qui, Tommaso Cantini e Lorenzo Cappelli (rispettivamente batteria e chitarra) si approcciano a un tipo di sound più cupo e riflessivo, a tratti desertico, costellato sia da sferzate voluminose che da espisodi nostalgici e introspettivi. Con un'attitudine aggressiva, ma sempre composta, il duo pistoiese riesce a creare atmosfere di mistero e reminiscenza, rese in maniera molto suggestiva non solo dall'azzeccata immagine di copertina (già di per sé evocativa del sound proposto), ma anche e soprattutto dal dialogo instaurato tra gli strumenti: la batteria segue discreta, senza mai essere fuori luogo, mentre la chitarra traccia un sentiero elettrico tra attimi di quiete e altri più esplosivi. Forti di una dilatazione che è sicuramente presente, ma che viene scarnita eliminando parti non indispensabili al progetto - come il cantato - , si sottrae per arrivare a un sound essenziale, compatto e incisivo, che possa accompagnare l'ascoltatore senza affanno anche durante i pezzi dal minutaggio maggiormente elevato. Cinque tracce carismatiche e avvolgenti che non ha senso prendere singolarmente, in quanto ciascuna contribuisce in prorio alla creazione di una particolare atmosfera musicale: la materia sonora-cinematografica di questo disco, facendo riferimento alla carriera dell'omonimo attore, ricorda i tratti più spirituali del generale Kurz di "Apocalypse Now", la sua dimensione sciamanica e ipnotica, segnata da lampi di ferocia e improvvisa follia. Una colonna sonora plumbea e intensa, che molto bene si inserisce in quel sottobosco musicale più ricercato e sperimentale che da qualche tempo sta interessando molti appassionati, grazie al lavoro di etichette più specializzate che da anni promuovono, con dischi e concerti, questo tipo di sonorità; come Dio Drone a livello locale (non a caso il disco in questione è una delle ultime uscite della label, in collaborazione con Toten Schwan), oppure Boring Machines, No=Fi Recordings, Hysm? e Brigadisco tra le tante fuori dai confini toscani.  
Recensione a cura di:
Tommaso Fantoni 
 

We Melt Chocolate: Space Owl EP [2015]

Nati dall'unione di Evanicetrip e Shades of Blue, i We Melt Chocolate sono, molto probabilmente, l'unico gruppo della zona (come sempre mi riferisco solo ed esclusivamente a Firenze-Prato-Pistoia) a proporre musica di chiaro stampo shoegaze. Genere che, sebbene a lungo sia stato un po' bistrattato - il termine stesso viene coniato dalla stampa britannica per descrivere "quelli che si fissano le scarpe", a indicare l'atteggiamento distaccato dei musicisti durante i live e la loro tendenza a concentrarsi sempre sui vari pedali e effetti, quindi guardando in basso - è riuscito a sopravvivere alle insidie delle mode passeggere e ad attirare un fedele quanto introspettivo gruppo di fan. Ed io, per quanto mi ricordi, sono sempre stato uno di essi. Spacemen 3, My Bloody Valentine e Slowdive sono nomi che mi hanno accompagnato in cuffia negli anni e, di fatti, sono sempre stato contento di scoprire le nuove realtà della zona che, come il sottoscritto, condividono la passione per queste particolari sonorità, o wall of sound che dir si voglia, e che da esse traggono nuova ispirazione. Quindi sì, sono di parte, ma trovare nuove band locali che portino avanti la bandiera dello shoegaze è diventata, almeno negli ultimi anni, una cosa alquanto difficile. Trovare qualcuno che lo faccia bene rasenta l'impossibile. Se escludiamo i gruppi di Vanessa Billi, l'eterea e coinvolgente voce dei We Melt Chocolate che ha già avuto modo, tra i tanti progetti negli anni (ricordiamo Captain Nice e I Ganzi su tutti), di affinare il proprio gusto per uno shoegaze marcatamente pop in band come Evanicetrip -che poi si sono evoluti nel gruppo in questione, ne abbiamo parlato qui- e Sonic Starship; gli altri e purtroppo unici rappresentanti del genere di cui ho memoria, sono i pistoiesi Ka Mate Ka Ora (di cui potete leggere qui), tra i miei preferiti. Quindi perdonatemi se, da buon appassionato, sono contento nel constatare che questo genere musicale, almeno per ora, non sia del tutto morto. "Space Owl" è sicuramente un EP molto accattivante, le cui venature dream-pop trovano il giusto spazio tra momenti di tensione sonora più accentuati e attimi maggiormente distensivi (per certi versi mi ricordano gli sconosciutissimi Rain Against The Sky o gli inglesi The Faunes), catturando l'attenzione e riuscendo a creare un'atmosfera che è psichedelica senza essere ridondante, restando impresso nella memoria anche dopo il primo ascolto (Orange Sky e Hypnotized). Come un feedback prolungato o il classico fischio che ti accompagna a casa dopo un concerto. Un'ottima compagnia. Con la speranza che i semi piantati da questo EP fioriscano prima o poi in un lavoro più corposo. E se poi così non sarà, comunque vada, "It's Allright".
Recensione a cura di:
Tommaso Fantoni

Qube: Trio [2011]

"Trio" è l'ultimo lavoro della band fiorentina, arrivato a più di due anni di distanza dal suo predecessore "Duo", di cui abbiamo già avuto modo di discutere in questa sede. Due anni di travagli e prove, in  cui sono state rodate live la maggior parte delle tracce del neonato disco e in cui una delle colonne che reggevano il sound peculiare del gruppo, il  batterista Emanuele Fiordellisi, ha lasciato gli storici compagni di  scorribande e travestimenti sul palco. Si può quindi facilmente immaginare la difficoltà che possono essere sopraggiunte nella lavorazione delle melodie e nel finale parto del nuovo bambino della ridotta famiglia qubica. Difficoltà e problemi che però non hanno spaventato i restanti membri i quali, forti comunque dell'esperienza musicale acquisita negli anni e di un sodalizio umano che va oltre le mere note, sono riusciti laddove chiunque altro avrebbe potuto cedere.  "Trio" è il degno premio che la band si è meritatamente conquistato, un'opera di riscatto come pochi avrebbero potuto sperare. Il compito di sostituire 'Manu', quello che secondo molti è uno dei migliori batteristi che la Firenze underground abbia mai avuto il piacere di ascoltare, spetta al chitarrista Francesco Perissi. E qui gli scettici avrebbero già voltato le spalle alla nuova formazione. Il sound della band però non si perde, ma al contrario, si perfeziona: con ritmiche più elementari di quelle del suo predecessore, la batteria instaura con gli altri elementi un tappeto sonoro ossessivo/percussivo che non lascia rimpiangere le cavalcate sulle pelli di "Duo". Naresh Ruotolo (voce) e Giuseppe Catalanalotto  (basso) accettano la sfida impostagli e con la nuova line up forgiano un suono che sembra mantenere lo stile dei passati lavori, ma che in realtà risulta completamente rinnovato e molto più seducente. Tra estesi drones elettronici e voci riverberate  nasce un nuovo modo di intendere la musica dei Qube: mentre prima il più facile riferimento era agli "aenimosi" Tool, adesso la band fiorentina sembra finalmente aver trovato una propria identità sonora, serpeggiando tra tessuti psichedelici e lampi di psy trance, tra fenomeni ambient e pacche sulla spalla a Scott Kelly. A poco serve parlare delle tracce nel particolare, poiché come è giustamente segnalato all'interno della cover, il nuovo disco dei Qube è un viaggio che va (giustamente) ascoltato tutto dall'inizio alla fine. Un viaggio che ha portato i tre musicisti sulle sponde di un nuovo modo di dar voce alle proprie emozioni e note, con sperimenti linguistici in italiano (solitamente la band adopera il cantato in inglese),  melodie in acustico e liriche che risvegliano le atmosfere da spazio profondo in cui domina la matrice post hardcore che ha dato i natali al paesaggio sonoro della band. Un ottimo lavoro, un viaggio oscuro e a tratti selvaggio, ma comunque sempre sensuale, che lascia poco spazio al caso e tanto spazio al talento.
Stai tranquillo Manu, i Qube non sono mai stati così in forma.

Recensione a cura di:
Tommaso Fantoni