I dischi dei Ka Mate Ka Ora hanno un’innegabile virtù: essere terapeutici. I montalesi, infatti, mettono in pratica, come felice antidoto al quotidiano corrersi addosso, quella terapia della lentezza che già dominava il loro primo lavoro (il convincente “Thick as the Summer Stars”, uscito neanche due anni fa) e che perseguono oggi, con ancora maggior compattezza e consapevolezza dei propri mezzi, coadiuvati dalla produzione di Marco Campitelli, patron della DeAmbula Records. Il mood e i mezzi adottati, grosso modo, sono rimasti quelli. Pochi accordi, tonalità e colori chiari e definiti, strumentazione essenziale (chitarra, basso, batteria), pochissimi battiti per minuto, in omaggio alle (dichiarate) influenze slo-core di Low, Red House Painters e Codeine.
Ma qui la band si impone un’autodisciplina (e, comunque, un significativo distacco dai modelli, frutto anche di un suono magmatico e avvolgente che non diventa mai magniloquente) che innalza di una spanna il livello rispetto al passato. Limano la struttura dei brani, ora vere e proprie canzoni, senza più code eccessive, giocano parecchio sugli arrangiamenti vocali (ai quali dà un fondamentale contributo Samuel Katarro, qui in veste anche di produttore artistico e chitarrista elettrico) e tengono sempre alta la carica emotiva, dall’imponente apertura (Vincent), ai distesi paesaggi che ricordano l’Islanda (Pig'n Sheep in a Toothless Dream), alla ballad vera e propria (Just An Explanation, col violino di Wassilij Kropotkin), alla cover (Suga dei Baby Blue, a cui partecipano gli stessi Serena Altavilla e Mirko Maddaleno) al piano solo (The Lowering Sun Reddens the Body of a Hanged Man). Sul tutto domina un’atmosfera solare e contemplativa, sanamente fuori dalle mode, sulla quale si abbatte un colpo di coda che stende e sorprende, cambiando forse le carte in tavola. D’altronde, il loro nome significa “è la morte, è la vita”.
Recensione a cura di:
Francesco D'Elia
Nessun commento:
Posta un commento