"Le foglie d’autunno incombono”, nome sicuramente evocativo che sembra quasi irridere la calura che sta dominando questi ultimi giorni, è un trio pratese composto da Lorenzo Terreni (chitarra), Fabio Melani (basso) e Alessandro Lucarini (batteria). Imponendosi rigorosamente l’assenza della voce come cifra stilistica dominante, la band abbraccia apertamente un genere che ha, si può dire, dominato gli ultimi vent’anni di musica e si è, a sua volta, ramificato in innumerevoli sfumature e derivazioni, quasi costringendo gli operatori del settore ad identificarlo con un marchio che di per sé significa assai poco e che però all’ascoltatore dà subito l’idea di ciò di cui si sta parlando: post-rock. Alfieri dell’accezione più tonitruante e pomposa del genere furono, ormai tre lustri or sono, gli scozzesi Mogwai, vero e proprio gruppo di culto e da seguire ormai per fede per milioni di fan, fra cui, crediamo, rientri anche il trio di cui scriviamo. La sfida di affrontare un genere ormai abusato era già abbastanza rischiosa in partenza, ancor più se approcciata cercando una quasi totale identità stilistica con quella dei propri numi ispiratori. Difatti, The Autumn Leaves Fall In, pur nella sincerità di intenti, non riescono ad evitare trappole che si preannunciavano scoperte, quali l’arpeggino di chitarra all’inizio, l’esplosione centrale, una modulazione appena accennata, un ritorno sul mezzo piano e la chiusa finale. All’incirca così è riassumibile la nuova “forma canzone” (in senso lato, ovviamente) adottata negli anni Duemila, una formula che i nostri abbracciano, dunque, sin troppo fedelmente. Per quanto, comunque, non mal eseguito e sebbene certe atmosfere siano discretamente tratteggiate, come l’incedere inquietante dell’incipit di A Mantle Of Darkness, è proprio nel loro svolgersi che i brani si sfaldano, tanto da assomigliarsi, alla fine, un po’ tutti fra loro. Le aperture con le chitarre in distorsione risultano telefonate e il loro ruolo decisamente eccessivo rispetto alle altre parti, tranne che nel finale di 32°F (senza dubbio il brano più interessante, nonché ritmicamente differenziato), nel quale si stratificano a mo’ di cluster, simili anche nelle tessiture a tappeto di The Autumn of ’05. Al discreto livello di questi due episodi, però, non si attesta il resto del disco, eccessivamente chiuso in se stesso nel cercare di avvicinare un modello, di per sé, inavvicinabile e che ha comunque già ampiamente proferito il suo messaggio; tutto ciò con l’inevitabile risultato di soffocare anche le buone idee che pure ci sarebbero, ma che andrebbero traslate in un contesto sonoro decisamente più variegato e colorito perché venga resa loro la giustizia che meritano.
Recensione a cura di:
Francesco D'Elia
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