Oshinoko Bunker Orchestra: 43 [2008]

Hardcore, post-hardcore, math-rock, noise-rock. Etichette, generi, cornici che inquadrano momenti fondamentali della storia dell’underground musicale delle ultime decadi. Definizioni che a sentirle pronunciate ora, marzo 2011, fanno sorridere, suscitano
nostalgia per tempi in cui, per quanto difficili come i nostri, la musica era “altro”. Un modo di esorcizzare collettivamente il quotidiano, consapevolezza, rabbia, passione. Sincerità.
Parole che stridono al giorno d’oggi, l’oggi della continua citazione. Chiunque in questi tempi può definirsi, inquadrarsi, stabilizzarsi su un modello. Magari anche per qualche giorno, sufficiente per autodeterminarsi nell’enorme melting pot dell’era contemporanea. Attitudini sognate, attitudini sfiorate, attitudini mancate. Anche la musica è povera d’attitudine da un po’ di tempo a questa parte. C’è difficoltà nel riconoscersi in un organico definito, c’è difficoltà nell’esprimersi, o meglio, ci si limita a farlo attraverso “Altri” ipotetici. Le Influenze cedono il passo ai Modelli. Anche il più insospettabile fruitore di “musica da riviste” può decidere di diventare un alfiere della neo-musica-sixties davanti al Mac del proprio ufficio, così come chiunque in preda a un delirio etilico può decidere di formare un gruppo hardcore in una delle piazze più “in” dell’estate fiorentina.
Oshinoko Bunker Orchestra, più semplicemente OBO. Bravura, attitudine, ma soprattutto tanta consapevolezza. Consapevolezza di un passato che non c’è più, di un presente ancora tutto da definire. Perché il punto forte degli OBO è proprio quella rara capacità di essere un gruppo da fare invidia ai grandi maestri del passato ma tuttavia solidamente ancorato al presente che manca a tanti gruppi presenti sulle scene contemporanee, italiane e non. L’ascoltatore più distratto può giustamente confrontarli a mostri sacri quali
Shellac, Black Flag, Fugazi, Flipper, geni assoluti di un’epoca ormai tramontata. Ma nelle ruvide e spigolose sonorità che trasudano dal loro secondo lavoro “43” , registrato e prodotto sotto la solida egida di Giulio Ragno Favero (One Dimensional Man, Il Teatro degli Orrori, Zu, solo per fare qualche nome), c’è altro. La produzione è cristallina, paradossalmente pulita e razionale. La tecnica esecutiva eccellente, senza sbavature. Le canzoni, piccole perle rare in un mare in burrasca. Non è più punk, istinto, bensì è calcolo, cervello ed esperienza. Già, esperienza. Non tutti sanno che gli OBO, formatisi nel 2003, provengono dalle ceneri di uno dei gruppi che più avrebbe meritato (rispetto a tanti altri, aggiungo) di lanciare un urlo importante e definitivo nella musica italiana di fine anni ’90. Parlo dei De Glaen. Poi la vita è pronta a gettare tutto alle ortiche, e dopo tre anni di silenzio, Vanni Bartolini (chitarre) e Lorenzo Moretto (batteria) decidono di formare con
Francesco Fusi (basso, ex- Neuroderma) gli OBO. Le otto tracce che scandiscono i 38 minuti di “43” viaggiano meravigliosamente, senza intoppi, tracce “tappo” o vani intellettualismi musicali. Il background è quello degli Shellac di At Action Park [Touch & Go, 1994], gli intrecci ritmici, armonici e melodici degli ottimi
strumentisti ricordano gli orditi di Don Caballero dei tempi d’oro. Il granitico binomio d’apertura noise-rock di S.O.S. e Reptile preannuncia il singolo Familiy Day, spigoloso al punto giusto, insanamente pop quanto basta. La rigorosa precisione dei primi quattro pezzi batte la strada verso il punto focale dell’album, il piccolo capolavoro The Ass (sì, Il Culo); la canzone OBO per eccellenza dove le influenze dei tre si fondono in una piccola suite rock, la cui ossessiva partenza di basso e batteria fa da prologo alla tanto perfetta quanto inaspettata esplosione post-rock à la Isis addolciti da qualche rimando a gruppi come Karate o Mogwai più violenti. Seguono così la schizofrenica cavalcata OSS pt 2 e Not that sex, praticamente una b-side del più nevrotico Jon Spencer con i suoi Blues Explosion. Gli OBO si congedano dall’ascoltatore con i 13 minuti di Mr. Lansdowne, improvvisazioni e svarioni hardcore impreziositi da rimandi minimali e psichedelici ad alta dose dissonante.  Finisce tutto d’un fiato uno dei più preziosi album degli ultimi anni. Un album da avere, scoprire e sezionare sino all’ultima cellula musicale, che traghetta l’ascoltatore da quei mostruosi anni che furono i primi ’90, alla meticolosità compositiva dei giorni nostri. 
Qualcos’altro d’aggiungere? Sì, il ritorno degli OBO con il terzo album nel 2011. Li aspettiamo a braccia aperte.

Recensione a cura di:
David Matteini

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