Blue Willa : s/t [2013]

L'esordio discografico dei Blue Willa (s/t - 2013, uscito per Trovarobato) rappresenta qualcosa di unico, destinato a diventare fondamentale all'interno del panorama rock contemporaneo; un progetto che affonda le proprie radici in un'ambizione radicale, che edifica, mette in mostra una dedizione rara alla propria vocazione creativa, portando a compimento un processo di esplorazione di quel potenziale (umano e compositivo) che poche band, pochi musicisti riescono a mettere a nudo, a esibire in maniera così definitiva. Già l'ultima uscita dei Baby Blue (moniker\progetto dalle cui ceneri i Blue Willa nascono) , "We Don't Know", suonava come un preludio, l'inizio di una riflessione sui linguaggi narrativi propri dell'indie-rock e su uno smantellamento degli stessi, un processo che per il quartetto pratese è stato un riappropriarsi della musica, degli strumenti, delle note e del legno dentro e fuori il canone in cui bene o male si inserivano. La produzione di Carla Bozulich -poliedrica musicista americana (Geraldine Fibblers, Evangelista)- è validissima perché estremamente penetrante, entra in profonda empatia con la band, ne illumina e dispiega tutta la carica visionaria. Un disco vivido, che sembra impastato con il corpo di chi lo suona, tattile, qualcosa che ha poco a che fare con il rock inteso come sfogo ed energia scatenata, piuttosto è un modello ibrido: da una parte la nenia esasperata, dolorosa e sciatta dei Velvet Underground, svuotata della tipica dose di nichilismo e morte da irradiare; dall'altra il panorama post-punk\post-rock (penso ai Wire o agli Slint), privato a sua volta di calcolo e geometrie. Le sensazioni suscitate sono curiose, c'è bisogno di entrare pazientemente nel disco per sistemarsi in esso, per abituarsi ai suoi modi, ai suoi spazi. Ci si ritrova a sgrovigliarsi in un habitat sonoro che ha molto di familiare ma che nel frattempo disorienta, imbarazza, è un po' come uscire di casa, saltare il guard rail del viale di fronte e addentrarsi lungo e oltre i contorni del proprio quartiere; e rimanere impigliati negli arbusti, scivolare nel fango e sulla ghiaia mentre la nostra città è lì, a venti metri, cosi composta, e noi ci zoppichiamo intorno. Ostilità e familiarità. Inadeguatezza dell'ascoltatore distratto e un po' imbranato.

Eyes Attention è l'inizio di questo cammino, la marcia di una legione stanca che sta rompendo le fila. Si sente il passo imprevedibile, scomposto, "they are all bamboo canes" , il comandante è lontano e quel suo ritmo cadenzato è solo un vago ricordo, una vecchia abitudine; in compenso c'è già profumo di festa, di vacanza imminente, di ritorno a casa. Il rock smobilita, (Fishes), frana giù al fiume, sgomma e ruzzola, poi torna a camminare lungo la riva, Tambourine plana sull'acqua e sembra di sentire le Cocorosie con la cetra in una mano e l'ascia in quell'altra. Con Moquette la marcia si fa passeggiata: le variazioni impercettibili sono decisive, un paesaggio denso in cui immergersi, un minimondo che si schiude come un lavorio sotterraneo, il finale è distratto, svagato, si dissolve arbitrariamente; spontaneo, naturale. E lo stesso è in Vent, con un' esplosione che è controintuitiva, viscerale, si sente lo sforzo, l'eruzione, il colpo trattenuto che arriva scomposto come di chi davvero picchia nella foga, con i muscoli veri, quelli suoi che usa sul suo strumento. Niente pose, è tutto vero. Una musica che si denuda -e non è facile il nudo per noi pudichi, che della musica siamo abituati ad apprezzare innanzitutto l'abito, gli accostamenti, il gusto, retrò o sciatto o elegante che sia-.
Una matrice lo-fi tutta fisica, che talvolta è lieve (Rabbits, così dolce e sgraziata, che da ballata d'altri tempi si incattivisce prima in un capriccio, in un broncio, poi in una litania funebre), spesso e volentieri invece abrasiva e percussiva (Good Glue, fra Sonic Youth e Cramps, Moan spiccatamente 90's, à la Microphones), si evince la capacità non di riprodurre quanto di imitare la fauna del crepaccio, dello stagno, del fiume che i Blue Willa abitano, visitatori attenti e divertiti. Ci sono questi giganteschi pesci d'assalto, e uccelli gracchianti che si fiondano caotici in picchiata (Birds, e qui si celebra l'affinità con due mostri sacri del made in italy: Father Murphy e Blake/e/e), conigli che fanno moine ma che, quando infine scende la notte, gettano ombre di mostri. Scende la notte, è tempo di rientrare nella tana: Cruel Chain si stende, deserto domestico, ancora una volta rassicurante e straniante insieme, e prepara al riposo. Spiders è il bagno purificatore, il suono è ancora una volta materico, avvolgente (che sia questo il riferimento -la Liguria de "Il sentiero"- a Calvino?) , gli ultimi passi nell'ecosistema Blue Willa, paesaggio di confine che uscendo dalla periferia pian piano si inselvatichisce e come per caso scende al fiume, fino all'oceano. C'è in definitiva un che  di iniziatico in questo disco: per non incespicare nei suoi mille anfratti ne va compresa la grammatica, grammatica audace, irta, selvatica. Lo straniamento che questa band ci consegna è la conseguenza di un approccio all'arte estremamente schematico che spesso ci troviamo ad adottare. Un approccio invece così vivo, zitto e furioso ad un tempo, non può che disorientarci, come chi torna a correre o -più propriamente- a nuotare negli elementi dopo tanta apatia. C'è del lavoro manuale, non seriale ma davvero fisico sull'oggetto, sullo strumento e sul corpo dei personaggi, del mondo che questo disco ingloba, grande merito va alle ritmiche claudicanti che risucchiano, che centrifugano e dettano un ritmo da lavoro, da artigiano piuttosto che da vero e proprio musicista. Musica viva, corporea, che non può non riguardare chi cerca occhi e ossa nuove per il proprio immaginario.
Recensione a cura di:
Antonio De Sortis

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